da "Il Manifesto", 10 ottobre 2025
Il dolore e il tradimento del popolo ebraico
[...]
Ci sono mille modi di essere ebrei.
Penso al pittore Mark Rothko, emigrato dalla Russia all’età di dieci anni dopo il massacro di Kichinev, per vivere negli Stati Uniti, e che a Houston creò la Rothko Chapel – un luogo interconfessionale, al crocevia tra arte, etica e politica – nel suo attaccamento incondizionato al principio del tikkun olam (la riparazione del mondo). Penso a Daniel Barenboïm che, insieme a Edward Said, fondò la West-Eastern Divan
Orchestra, affinché giovani musicisti dei paesi arabi, della Cisgiordania e di Israele potessero suonare insieme nella stessa orchestra, sfidando l’odio dei politici.
Penso allo storico Pierre Vidal-Naquet che, all’indomani della guerra dei Sei Giorni, maturò una visione profetica. «Solo un accordo globale, che implichi insieme il riconoscimento di Israele da parte degli Stati arabi e la soddisfazione delle aspirazioni nazionali degli arabi di Palestina, può prevenire o ritardare la catastrofe, scrisse. Ma spetta a Israele, vincitore, compiere le concessioni più significative, e più precisamente alla sinistra israeliana dare il segnale della riconciliazione, offrendo agli Arabi, quelli d’Israele e quelli fuori da Israele, le parole e le proposte concrete che permettano loro, finalmente, di accettare di convivere con Israele».
Penso ad Amos Elon, uno degli scrittori più impegnati d’Israele prima della sua partenza definitiva per l’Italia nel 2004. «Gaza sta per esplodere», avvertì. «È l’unico posto al mondo dove si trovano persone che vivono così, da quarantun anni, senza passaporto. Non sono niente, stanno su una spiaggia di sabbia, vicino al mare, senza nome, senza identità…E più a lungo manterremo quei territori, più difficile sarà trovare una soluzione [..] Alla radice di tutto c’è uno scontro tra due forze irresistibili, l’essenza stessa della tragedia. Ancora oggi continuo a sostenere che la vittoria della Guerra dei Sei Giorni fu peggio di una sconfitta».
Penso allo scrittore David Grossman, che continua a cercare un varco, anche minimo, verso la pace: dopo la sua recente intervista a La Repubblica, è stato maledetto dai suoi per aver accettato, dopo infinite esitazioni, di denunciare il massacro e la fame inflitti ai palestinesi. Nel 1987, Le Vent jaune, il suo reportage in Cisgiordania, provocò uno shock nella società israeliana. Divenne uno Zola in terra palestinese, e alcuni militanti del Likoud, convinti dalla sua voce, strapparono la loro tessera del partito. «Io sono qui, in piedi, e ascolto, e cerco di restare neutrale», scrisse. «Di capire. Senza giudicare [..] I bambini dell’asilo di Deheisheh [..] comincio a distinguerli gli uni dagli altri [..] non è facile [..] perché anch’io sono stato abituato a vedere gli arabi al contrario [..] Devo penetrare nel cuore stesso della mia paura, imparare a guardare in faccia gli arabi ‘invisibili’». Era qualche mese prima dell’inizio della prima intifada.
Penso a David N. Myers, professore alla Ucla ed ebreo praticante, che attraversa gli Stati Uniti insieme a Hussein Ibish, accademico arabo-americano. «L’orrore di ciò che accade a Gaza è una catastrofe per gli ebrei», dichiara. «La festa di Tisha B’Av commemora la serie di tragedie che hanno colpito gli ebrei, a cominciare dalla distruzione del Primo e del Secondo Tempio nell’antichità Eppure, quest’anno è diverso. Gli ebrei non sono le vittime. Siamo i carnefici. E dobbiamo aggiungere alla lista delle catastrofi che piangiamo la devastazione delle vite palestinesi causata da Israele in rappresaglia al 7 ottobre. La portata di quest’orrore sfida l’immaginazione».
Penso a Jonathan Safran Foer, che invoca Primo Levi, Abraham Heschel e Hannah Arendt, rivendicando il disagio e l’azione. «La tradizione ebraica non intende la memoria come un atto passivo di ricordo, ma come una forma di resistenza», afferma. «La Torah ordina, ancora e ancora: zachor – ricorda. Ricorda che sei stato schiavo in Egitto. Ricorda ciò che Amalek ti ha fatto lungo il cammino [..] la memoria non è un deposito del passato – è un invito ad agire nel presente».
Ci sono mille modi di essere ebrei. Ci sono anche, purtroppo, dei fanatici al potere su tutti i fronti.
[...]
Annie Cohen-Solal
Mai indifferenti